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L’esistenza della chiesa di S. Lucia è attestata per la prima volta in un documento del 973 (“Sadalbertus presbyeter de oratorio Sanctae Luciae”). Nel 1178 è documentata la presenza di un “ospitale “ e di un convento annesso alla chiesa, retto da una comunità di frati. Nel 1252 tale frate Matteo chiese ed ottenne dal vescovo Jacopo di Breganze (1225-1252/54) l’autorizzazione a edificare una nuova chiesa in onore di S. Lucia in sostituzione del precedente edificio forse divenuto insufficiente.
La storia della fiera la si legge su “Città di Verona”, che secondo la tradizione i banchetti “de Santa Lussia” sono dedicati alla Santa siciliana vissuta alla fine del terzo secolo. Secondo la tradizione veronese nella notte tra il 12 e 13 dicembre, accompagnata dal suo asinello e dal Gastaldo porta dolciumi e giocattoli ai bimbi buoni e pezzi di carbone a quelli cattivi. La sera ciascun membro della famiglia lascia sulla tavola un piatto vuoto che la Santa riempie di dolci.
I bambini vanno a letto presto e chiudono forte gli occhi, nel timore che la Santa li accechi con la cenere se li trova svegli. Questa tradizione risale al XIII secolo, quando si diffuse a Verona una pericolosa malattia agli occhi che colpiva soprattutto i bambini. Genitori e familiari iniziarono a compiere come voto un pellegrinaggio nella chiesa di Santa Agnese per far cessare l epidemia. Con la promessa che Santa Lucia avrebbe riempito scarpe e calze di doni e dolciumi si convincevano anche i bambini a partecipare al pellegrinaggio a piedi nudi.
L’abitudine di accompagnare i figli nella chiesa di Piazza Bra continuò fino all’Ottocento e l’affluenza di tanti bambini e genitori nella piazza più grande di Verona richiamava i venditori di dolciumi e giocattoli. Da qui nacque la Fiera di Santa Lucia.
15CHIESA DI SANTA MARIA DELLA GHIAIA
L’archivio di Santa Maria della Ghiara (o Ghiaia) è conservato all’Archivio di Stato di Verona dal 1964, quando vi pervenne dall’Archivio di Stato di Venezia. Nella città lagunare era giunto a seguito della soppressione del monastero avvenuta nel 1769.
Le prime attestazioni, secondo Biancolini risalenti al 1173, vedrebbero in questa chiesa una compagine di «compagni», che nel secolo seguente risultano come Umiliati. Ma il riscontro sulla documentazione permette solamente di riconoscere in atto del 1198 un'investitura ad alcune persone definite socii, senza alcun riferimento a questa chiesa o a enti religiosi. Il monastero venne soppresso nel 1570 e affidato nel 1591 ai Teatini che vi rimasero fino alla soppressione veneziana del 1769, quando si riunirono in San Nicolò.
La chiesa (con annesso ospedale e monastero) è attestata dal 1211: dapprima retti da conversi dediti all’assistenza ospedaliera, dalla fine del XIII secolo è attestata la presenza di monache benedettine, alle quali si unirono alla fine del secolo quelle di Sant’Agata alla Tomba e di San Cassiano di Mezzane; nei primi anni del XV secolo si spostarono all’ospedale e chiesa di San Giovanni Battista della Ghiara, dove portarono pure il titolo e dove rimasero fino alla soppressione nel 1806
La parte più interessante è meravigliosa è indubbiamente il grande rosone pavimentale, al termine del percorso della lunga navata centrale, dinanzi all'Altare Maggiore. Abbiamo un grande quadrato, che recinge un quadrato più piccolo,formando una "cornice" dove corre un fregio 'intrecciato' dai colori bianco e rosso. Il quadrato "inscrive"un cerchio, anzi più d'uno. Ai bordi,tra le due figure geometriche, a mò di 'losanghe', vi sono quattro fiori più grandi, uguali a due a due, posti in altrettanti cerchi.. Quelli che osserviamo nella foto e consideriamo(per praticità e per capirci) 'in alto', hanno cinque petali bianchi e quattro neri, che fanno da sfondo. In realtà, sembrano ricordare la forma di un pentagono. Al centro, hanno un grosso pistillo nero. Di lato, due cerchi più piccolini contengono altrettanti fiorellini, con quattro petali bianchi ciascuno e 'percorsi'da due bracci trasversali, di colore nero-come il loro pistillo-come a formare una croce, che ricalca un po' il motivo che si vede nei due cerchi inferiori, che contengono due fiori cisacuno a quattro petali bianchi,con un pistillo rosso centrale e, appunto, anch'essi una sorta di 'croce' di colore nero con la parte terminale lanceolata. Accanto a questi due cerchi più grandi, ci sono anche in questo registro due cerchiolini più piccoli, contenenti ognuno due fiori con tre petali bianchi e il pistillo nero.Come a voler fare da "raccordo" alla serie, strani oggetti a forma vagamente di 'coppa' o vaso, si ripetono al termine di ogni cerchiolino minore e riprendono dall'altra parte (in totale abbiamo otto di questi oggetti).Proseguendo l'osservazione del disegno pavimentale, si incontra il primo grande cerchio, con una circonferenza di colore nero e una di colore rosso, più esterne, e una di colore rosso e poi nero più interna. Esse delimitano una 'corona'circolare che contiene una serie di sfere (69 per l'esattezza) bicolori, bianche e rosse. Questi elementi, ci suggerisce il cortese sig. Mauro Messina, rappresentano la luna nelle sue diverse fasi o lunazioni. Infatti, ci dice, si hanno sfere completamente chiare, quarti di sfere e alcune sfere completamente scure (luna nera o luna nuova). La qual osservazione rende il manufatto ancora più affascinante e interessante, che apre l'ipotesi che forse potrebbe essere studiato da un punto di vista archeo-astronomico.Tra la 'corona' e la successiva, si sbizzarrisce una serie di ellissibicolori, variamente intersecantisi tra loro, su un suggestivo sfondo di colore nero. Al centro di questa 'spirale', che appare dall'alto probabilmente come un vortice, si trova un altro cerchio, disegnato in bianco, che è separato da un altro cerchio concentrico (più interno e sempre bianco) da una serie di coni imbutiformi (esattamente 30) sempre bicolori, bianchi e rossi, su fondo nero. Come su fondo nero è ilsuggestivo sole a dodici raggi fiammati, che ha per centro un cerchio rosso su cui è disposto uno spicchio bianco. Questo viene ufficialmente riconosciuto come lo stemma dei Domenicani.
In alcune parti, il rosone appare piuttosto consunto,segno di progressivi calpestii. Da ricordare che nella navata centrale, davanti al presbiterio, sorgeva un tempo un pontile, una sorta di 'recinto' che doveva separare il coro riservato ai frati dai fedeli (cioè, come si usava, la parte 'sacra'da quella 'profana' e dove quest'ultima non poteva accedere). Tra la seconda e la terza coppia di colonne, partendo dall'altare maggiore, si possono ancora oggi vederne le tracce sul pavimento (altre parti sono state riutilizzate in altri edifici cittadini) (Tratto da: due passi nel mistero.com)
36CHIESA DI SANTA MARIA ROCCA MAGGIORE - CHIESA DI SAN TOMMASO CANTUARIENSE
La prima citazione inerente S. Maria Rocca Maggiore proviene da una breve di Papa Lucio III, datata 13 giugno 1185, con la quale la chiesa veniva confermata al monastero dei SS. Vito e Modesto in Badia Calavena ("ecclesia Sancte Marie in Insulo Verone"). Il toponimo deriva forse dal santuario della Madonna esistente nella strada dei pellegrinaggi che da Tolosa conduce a Limoges, dedicato appunto a "Santa Maria Roche Amatoris" o a "Santa Maria De roca Amadore".
Nel XVIII secolo VERONA era una tappa fondamentale per il completamento della formazione e l’affermazione di un musicista. Lo sapevano bene Wolfgang Amadeus Mozart e il padre Leopold che, nel 1769, giunsero nella terra di Romeo e Giulietta e diedero vita a due straordinarie serate.
L’obiettivo del viaggio in Italia
Quando Mozart giunse a Verona insieme al padre Leopold, l’enfant prodige austriaco aveva appena 13 anni. Era il 27 dicembre 1769 e i due avevano già effettuato proficui viaggi tra Londra, Parigi e la Germania. Nelle due settimane di soggiorno, il giovane musicista si esibì in due concerti di grande successo. Qui Wolfgang venne trattato come un divo, con la nobiltà locale che fece a gara per tributargli onori e omaggi.
Il viaggio in Italia fu previsto dal padre con l’obiettivo di far conoscere Mozart nelle accademie italiane, creare amicizie e procacciare incarichi. A Verona, infatti, c’era un’importante Accademia Filarmonica, dove Wolfgang si esibì il 5 gennaio 1770 per la prima volta. La settimana di attesa per questa prima all’Accademia servì ai Mozart per assistere all’opera Ruggiero di Pietro di Alessandro Guglielmi al Teatro dell’Accademia Filarmonica e a fare visite di cortesia agli ambienti nobiliari cittadini. Tra le tante figure conosciute, i componenti della famiglia Lugiati ebbero l’onore di avere il ragazzo immortalato in quadro da appendere nella propria sala da musica.
Le due serate di Mozart a Verona
I concerti di Mozart a Verona furono, quindi, due. Il primo, come detto, si svolse il 5 gennaio 1770 nella Sala della Conversazione del Teatro dell’Accademia Filarmonica. Ad assistere c’era un pubblicò composto da nobili e alte cariche ecclesiastiche e cittadine. Il compenso di Mozart per la serata fu di 18 zecchini, messi a disposizione dagli stessi partecipanti. Il secondo concerto, invece, si svolse due sere dopo nella chiesa di San Tomaso, su iniziativa della famiglia Locatelli, ai quali la chiesa apparteneva. L’organo che qui si trova aveva delle caratteristiche sonore innovative e peculiari e il ragazzo spinse molto per provarlo. Ancora oggi lo strumento porta l’incisione delle iniziali di Wolfgang, che il ragazzo fece con un coltellino.
Grazie ad alcune lettere di Leopold Mozart possiamo anche cogliere le impressione che i due austriaci ebbero della città. Egli rimase incantato dalle bellezze veronesi, come l’Arena e portò con sé un libro che parlava delle antichità cittadine. Grande effetto sui Mozart ebbero, inoltre, il Museo Lapidario istituito pochi decenni prima dal marchese Scipione Maffei (primo esempio di museo di epigrafi greche e romane in Europa) e il bellissimo Giardino Giusti. I due lasciarono la città il 10 gennaio 1770. Si diressero alla volta di Mantova, lasciandosi alle spalle una città che riservò loro un calore e un affetto di cui pochi avevano potuto beneficiare precedentemente.
Cronologia: 1355: costruzione della chiesa di Santa Maria della Vittoria Vecchia. 1469-1481: costruzione del convento dei Girolimini. 1487-1513: costruzione della chiesa Santa Maria della Vittoria Nuova. 1805-1810: chiesa e pertinenze sono demanializzati e destinati all’uso militare, per decreto napoleonico. 1814-1866: mantenimento dell’edificio in uso militare per diverse destinazioni (magazzino, caserma). Committenze: Cangrande II Della Scala, Ordine di San Girolamo della Congregazione del Beato Pietro da Pisa. Al convento dei Gerolimini appartennero nel tempo due distinte chiese: Santa Maria della Vittoria Vecchia e Nuova. La chiesa più antica, dedicata a Maria Vergine e a San Giorgio, fu fatta costruire nel 1355 da Cangrande II della Scala, in seguito alla vittoria riportata contro la fazione avversaria capeggiata dal fratello Fregnano. Nel 1465 la chiesa e un fabbricato annesso vennero concessi all’Ordine di San Girolamo della Congregazione del Beato Pietro da Pisa. Pochi anni dopo (1469-1481), i Girolimini costruirono il convento, separato dalla chiesa. Gli stessi frati, negli anni 1487-1513, edificarono, annessa al lato nord del convento, la nuova chiesa di Santa Maria della Vittoria, dedicata a Santa Maria delle Grazie. La chiesa preesistente, edificata su terreno di proprietà del Monastero di Santa Maria in Organo, passò a una compagnia segreta. Nel 1810, in seguito alla soppressione del convento e alla demanializzazione, la chiesa di Santa Maria della Vittoria Vecchia fu trasformata in officina; la chiesa di Santa Maria della Vittoria Nuova fu adibita a nitriera, e parte del convento era in uso al direttore della nitriera.
La chiesa di San Pietro in Castello, sul colle soprastante la città di Verona, è attestata documentariamente all’inizio del IX secolo; alla metà del X è retta una schola sacerdotum e risulta sottoposta al vescovado e pieve dal 1046, anche se non sembra esservi amministrato il battesimo. Alla metà del XII secolo risultano dipendere da San Pietro in Castello una cappella in Poiano (questa verosimilmente da più antica data, secondo conferma del 1165, dove godrà anche di diritti di decima), nei pressi del colle la cappella di Sant’Apollinare (1184) e per un breve periodo (1165-1172) quella di San Mauro di Saline. La chiesa perse autonomia giuridica con l’unione alla vicina chiesa di Sant’Angelo in Monte, già retta dai canonici della congregazione di San Giorgio in Alga di Venezia, nel 1441
Rovistando tra antiche pagine di storia veronese incontriamo continue e strabilianti invenzioni di segnatempo. Ora sembra di poter riconoscere un monumentale orologio di costruzione romana, raffigurato in una antichissima mappa di Verona «l'Iconografia rateriana» del IX secolo.
Guardando in alto, questa antica pianta cittadina del Codice CXIV-106, conservata presso la Biblioteca Capitolare di Verona, sulla destra, tra le costruzioni, osserviamo un enorme edificio a forma di Torre che sporge dietro i fabbricati, al di fuori delle mura cittadine, ai piedi della collina e lambito dall'Adige: L’Organum.
La parola scritta tra le colonne «orfanum» è stata riconosciuta alterata per la cattiva copiatura attraverso i secoli, con la sostituzione della G in F molto simili graficamente tra loro in quell'epoca.
La monumentale costruzione romana, visibile quasi per intero è composta da strutture massicce sovrastanti un basamento gradinato che sostiene un robusto corpo centrale, sormontato da una corona di archi.
Osservando attentamente il loggiato a colonne, lo notiamo raffigurato all'interno vuoto, e circolare. Lo dimostrano l’ombra al disopra della nicchia e i due archi estremi prospetticamente più stretti: perciò è intuibile che altrettanti archi a colonne eguali girino nella parte retrostante (1).
Disegnando in piano la forma geometrica ottenibile, passando da tutte le colonne si forma esattamente un ottagono; figura largamente usata da popoli antichi come base di costruzione di segnatempo solari verticali. Ricordiamo qui l'orologio di Andronico di Cyrros, citato da Marco Vitruvio Pollione (1°secolo) che nel suo primo libro «De Architettura» nomina la «Torre dei Venti», famoso segnatempo solare dotato all’interno di un orologio ad acqua e usato dai Greci come cronometro, costruito in Atene nel primo secolo avanti Cristo. Su detti orologi parallelepipedi solari, la lettura delle ore semplificate in quaternarie o periodi di tre ore, veniva indicata su quattro facce, quelle rivolte verso il Sole a mano a mano che successivamente si illuminavano dall’ alba al tramonto.
L’Iconografia Rateriana che pone chiaramente il lato orientale a destra di chi guarda, mette in piena luce lo parte funzionale dell’orologio solare: i quattro archi visibili della loggia «Organum». Ogni arco, come dicemmo, determina l’ora quaternaria composta di tre ore temporali, pertanto nel settore od arco rivolto ad oriente viene letto il primo orario, ossia l'ora terza, mentre nel secondo arco si rileva lo sesta ora che chiude con lo colonna centrale, mentre continuando troviamo lo nona ora e nell’ultimo arco seminascosto lo successiva dodicesima, che chiuderà il ciclo col tramonto solare.Dal sorgere del Sole sino all'imbrunire, tutte le ore sono qui indicate e divise a destra e sinistra della colonna centrale; mezzodì ora sesta, a conferma della mezza giornata. È evidente che la lettura viene fatta all'interno della loggia e sulla proiezione modificata e progressiva dell'ombra sul pavimento, che funge da quadrante indicativo come in una normale meridiana a logica graduazione.
Il cosiddetto Sacello dei Santi Nazaro e Celso è un complesso rupestre risalente al periodo paleocristiano scavato nel tufo del monte Costiglione, poco lontano dalla chiesa che ne ha ripreso il nome, probabilmente un martyrium destinato ad accogliere le reliquie dei santi titolari. La grotta presentava un vano a pianta quadrata coperto da una volta a botte, fiancheggiato da due vani rettangolari poco profondi anch’essi voltati a botte. Le pareti di questo ambiente erano ricoperte da due strati sovrapposti di affreschi; il più antico recava un’iscrizione con la data 996.
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