È tempo di (ri)proporre una riflessione sulla poetica di Antonio Pellicciari - noto a tutti come Marclau, ragionando su una serie di opere che testimoniano e sintetizzano un’idea di pittura elaborata soprattutto lungo gli ultimi decenni del Novecento. Anni intensi e travagliati, di certezze e incertezze, di considerazione e libertà. Di un’idea di vita aggrappatasi con forza alla pittura. E che ora riscopriamo nel suo manifestarsi attraverso lo stupore dello sguardo. Il nostro. Un guardare che è anche un “vedere”. Mai sazio di vertigini visive. Ci è richiesta una certa passività emozionale nell’approcciarci alla pittura di Marclau, nella quale procediamo quasi per immersione – catturato, il nostro occhio – in liquidità aeree o carnali che suggeriscono vibrazioni psichedeliche e rumori sonori. Le azioni visive e pittoriche dell’artista sono immagini “aperte”, dove una linea informale si fonde con l’accensione pop di anni di reflusso postmoderno. Immagini non scontate e imprevedibili nell’intrappolare e spiazzare aspettative rassicuranti di chi ancora resta aggrappato all’agonia del figurativo. Marclau ha sempre ripudiato l’idea di farsi imprigionare in sistemi di creazione difendendo l’indipendenza del discorso artistico e permettendoci di tornare a riflettere sui colori del suo tempo fuori dal tempo. Un tempo libero. Fino alla fine.
ANTEPRIMA SFOGLIABILE
È tempo di (ri)proporre una riflessione sulla poetica di Antonio Pellicciari - noto a tutti come Marclau, ragionando su una serie di opere che testimoniano e sintetizzano un’idea di pittura – elaborata soprattutto lungo gli ultimi decenni del Novecento. Anni intensi e travagliati, di certezze e incertezze, di considerazione e libertà. Di un’idea di vita aggrappatasi con forza alla pittura. Nuda e pura, agita e vissuta. E che ora riscopriamo nel suo farsi attraverso lo stupore dello sguardo. Il nostro. Un guardare che è (anche, soprattutto) un vedere. Mai sazio di vertigini visive, pronte a divorare le viscere più superficiali della nostra pelle esposta quanto basta in profondità infinite. Marclau sembra qui svelarci il mistero stesso della pittura, un sipario lacerato e urlato di tinte che irresistibilmente catturano occhi e vite in cui affondare per riaffiorare (di nuovo, ancora) all’infinito. È il gioco arcano dell’arte a non avere fine, tra un interno e un esterno, tra un dentro e un fuori. Impalcato lì, nell’indefinibile tempo dell’immagine. Spazialmente indecifrabile in cadenza di eternità. Vedere, rivedere, stravedere. Ci è richiesta una certa passività emozionale nell’approcciarci alla pittura di Marclau. Dove procediamo quasi per immersione – catturato, il nostro occhio – in liquidità aeree o carnali che suggeriscono vibrazioni psichedeliche e rumori sonori dall’empito rigorosamente informe, biomorfico. Dove una linea informale si fonde con l’accensione pop di anni di reflusso postmoderno, traendo un bilancio concettuale da un intero discorso artistico sempre aperto nel suo farsi. E proprio l’apertura ha sorretto l’ispirazione del poliedrico artista trevigiano. Le sue azioni visive e pittoriche sono e restano immagini non scontate, imprevedibili nell’intrappolare e spiazzare aspettative rassicuranti di chi ancora resta aggrappato all’agonia del figurativo. Stile morto (o mai nato) da tempo. Il destino della forma, infatti, è di deformarsi. Informata e intaccata da forze e da energie che rifiutano l’ordine mimetico di una natura impossibile da catturare. E che sempre ha ripudiato l’idea di farsi imprigionare in sistemi di creazione. La cui curvatura resta libera di proporsi in pensiero sciolto da vincoli prospettici. Marclau appartiene a questa fronda di difesa dell’indipendenza del discorso artistico. Fattuale nell’intimo e pittorico nell’occasione. Un avvenimento, un’epifania che ci permette di tornare a riflettere sui colori del suo tempo fuori dal tempo. Un tempo libero. Fino alla fine.