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L’indicazione per la Valle Roja era una freccia di legno con sopra il teschio di una capra. Giovanni, notato il mio stupore, mi raccontò che alcune capre, per cercare l’erba più verde o per raggiungere il mare, si arrampicano sulle alte e impervie pareti rocciose che costeggiano la valle, e talvolta qualcuna precipita di sotto. Continuando il cammino su sentieri sempre più stretti tra altissime pareti di pietra nera e grigia, fermandomi per scattare alcune fotografie, persi la mia guida. Allarmato e un po’ spaurito, cominciai a urlare il nome di Giovanni, ottenendo come risposta una eco profonda e inquietante. Nella foga della corsa, in fondo a un passaggio scuro, all’improvviso, come un miraggio, mi sembrò di vedere brillare uno strano luccichio: avevo finalmente raggiunto il mare.
ANTEPRIMA SFOGLIABILE
Intervista a Fernando Zanetti su Radio rete 2000 - 30/06/2023
Promozione premio letterario su Radio rete 2000 - 30/06/2023
In principio, Vulcano era chiamata Gelso. Sulle vecchie mappe nautiche che riportano la rotta del postale tra le isole e la terraferma, il primo scalo era lì, davanti al grande faro costruito a metà Ottocento nel punto più meridionale delle Eolie. Tutt’attorno, una manciata di case abitate da contadini-pescatori – per campare, da quelle parti, bisognava usare con uguale destrezza la zappa e le reti – e le residenze sparse delle famiglie benestanti di Lipari. Scorrendo invece la tavoletta IGM in scala 1:25.000 realizzata dai puntigliosi cartografi del neonato Regno d’Italia, si trovano cognomi assurti alla dignità di toponimi: Casa Amendola, Casa Carnevale, Casa Scolarici, e così via. È la rappresentazione grafica di una forma primordiale di turismo a corto raggio: i proprietari terrieri e le loro famiglie andavano al Gelso per la villeggiatura di agosto, anche perché alla fine del mese si vendemmiava la passolina e bisognava sovrintendere al raccolto. I bambini trascorrevano le giornate scottandosi i piedi sulla sabbia rovente della spiaggia del Cannitello, per ritornarvi la sera alla luce fioca delle lanterne a raccogliere “ufale” tra gli scogli mentre giovanotti e signorine, dopo cena, si riunivano nell’aia a comporre motti e canzoni o a scambiarsi promesse d’amore sotto cieli grondanti di stelle. Il passatempo degli uomini era invece di gran lunga più pragmatico: la caccia al coniglio, per la quale si inerpicavano volentieri fino ai boschetti di leccio della Portella e del Piano, oppure ai colombi, stanati lungo la costa dentro le grotte che si potevano raggiungere soltanto a bordo di piccoli gozzi a remi. L’acqua si raccoglieva con il secchio dalle cisterne dove pare che si aggirassero immortali e solitari capitoni, incaricati di tenerle pulite. Il ghiaccio arrivava un paio di volte a settimana, direttamente da Lipari e sempre a bordo di imbarcazioni a remi, così come poche altre provviste. Non c’era altro, a parte un’idilliaca, sconfinata spensieratezza. Agli antipodi di questo microcosmo, sull’altro lato dell’isola, si trovavano invece le rocce dai colori sgargianti dello zolfo e dell’allume, avvolte da fumi nauseabondi e bagnate da acque gorgoglianti: un luogo infernale, dove nessuno tra i liparesi dotati di buon senso avrebbe mai pensato di costruirsi una dimora. A volte, però, anche una geografia consolidata e apparentemente immutabile può essere sgretolata da strane e curiose circostanze. Intorno alla metà del Novecento, le famiglie un tempo benestanti si ritrovarono a esserlo sempre meno, perché i vigneti non erano più tanto redditizi; le case iniziarono ad andare in malora e i figli dei contadini preferirono cercare fortuna altrove. La belle époque del Gelso cominciò a spegnersi, lentamente, illuminata soltanto dal riflesso intermittente del faro. In quello stesso momento gli antipodi infernali e maleodoranti stessero rivelando un fascino tanto prepotente, quanto insospettabile. I gusti erano cambiati, così come il Paese, con un conflitto mondiale alle spalle e un boom economico che si affacciava all’orizzonte. Quell’angolo selvaggio e lunare divenne la meta ideale di vacanze avventurose, tra incantevoli spiagge di sabbia nera e acque che ribollivano a pochi passi dalla battigia. Presto qualcuno cominciò a prodigarsi anche per aumentare l’offerta ricettiva, fino ad allora del tutto inesistente. Ma la natura, prima o poi, presenta il conto. Sul finire dell’estate del 2021 il sonno di quel vulcano placidamente assopito si rivelò molto più lieve di quanto creduto. Nei campi fumarolici, i valori delle emissioni dei gas e le temperature valicarono rapidamente i limiti standard, tanto da far temere un’imminente eruzione. Ogni estate l’isola è meta delle vacanze di decine di migliaia di turisti, oltre che dei frequentatori abituali che possiedono una villetta o un appartamento in multiproprietà. Il loro arrivo coincide con la fioritura esplosiva delle ginestre che, dopo i fatti del 1888, hanno ricolonizzato le pendici del vulcano e si spingono come intrepide pioniere sugli aridi sabbioni che ne ricoprono i versanti: un mantello vegetale che d’improvviso si colora di giallo e sprigiona una delicata fragranza tutt’attorno. A seconda del vento che tira, quel profumo può spingersi fino alle case e alle strade del Porto, ed è l’unico in grado di competere con le fumarole maleodoranti, dando vita a un’improbabile miscela composta da sentori di primavera e di girone infernale. Forse ha perso un po’ dello smalto degli anni ruggenti e mondani, concedendosi a un turismo sempre più popolare e meno esigente, ma Vulcano piace ancora. Anzi, di più: si ostina a sedurre, come saprebbe fare solo un anziano latin lover che sappia bene come il vero fascino non tramonti mai e, allo stesso tempo, sia dotato di una profonda conoscenza delle contraddizioni del genere umano.