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Ho raggiunto Punta Corvo in un caldo pomeriggio di Giugno. Mi sono sdraiato a terra per riposare, un piacevole vento fresco e profumato mi accarezzava la pelle, e il sole si mostrava a tratti fra veloci nuvole bianche. Ero come rapito da un sogno, d’improvviso l’idea, ho fotografato il cielo, e perché quel sogno non sfumasse, nella stessa immagine ho inserito il blu profondo del mare e due isolotti solitari. Solamente dopo avere catturato il “Miraggio” mi sono svegliato, rendendomi conto in quell’istante di essere stato sfiorato da una estrema meraviglia.
ANTEPRIMA SFOGLIABILE
Intervista a Fernando Zanetti su Radio rete 2000 - 30/06/2023
Promozione premio letterario su Radio rete 2000 - 30/06/2023
Immaginate di arrivare alla spiaggia degli Zimmari, fuori stagione, e di trovarla deserta: una lingua di sabbia dorata – l’unica a possedere questo colore, in tutto l’arcipelago – dove le onde si frangono dolcemente, dopo avere disegnato una teoria di solchi increspati sul fondo della baia. Sulla scogliera, i raggi del sole ravvivano il fucsia delle violaciocche, il giallo pastello degli elicrisi, il tenue rosa dei fiordalisi e dei garofani delle rupi. Una breve risalita sulla scalinata in pietra a fondo spiaggia conduce a una densa macchia di cisti, lentischi ed euforbie arborescenti, interrotta qui e là dalla candida fioritura di qualche mirto solitario. Il sentiero degrada dolcemente, di nuovo in direzione del mare, ma questa volta lo scenario che si propone alla vista è completamente diverso: una distesa di ciottoli magistralmente levigati fa da sponda alle ripide falesie che racchiudono Cala Junco, nel mezzo della quale si erge il torrione di roccia del Bastimento. Le lave dello scoglio sembrano essere state scolpite dalla mano dell’uomo, invece, sono frutto di un repentino processo di raffreddamento che ha dato origine a un’interminabile successione di sagome prismatiche. Perché Panarea fondamentalmente è un vulcano. L’isola riesce a dissimulare bene la sua natura, a prima vista. Un osservatore attento, però, coglierà presto gli inequivocabili segni delle forze telluriche che, a partire da centocinquantamila anni fa, l’hanno generata. Le due guglie di roccia che incombono sulla spiaggia dorata – il Castello e il Tribunale – sono duomi endogeni, masse di lava viscosa affiorate in superficie sotto la spinta di immani quantità di gas magmatico. Nessun testimone sarebbe sopravvissuto assistendo a uno spettacolo del genere, ma va anche detto che quando ciò si è verificato la nostra specie non abitava ancora la Penisola. Poi c’è la Calcara. Allo stesso tempo, possiede le sembianze del paradiso e dell’inferno. La vista dalla spiaggia, aperta verso Settentrione, è magnifica e poetica, ma sulla riva una crosta di terra nuda e giallastra nasconde piccole crepe dalle quali prorompe un’infinità di tiepide fumarole. L’odore di zolfo, inconfondibile, si avverte già dal sentiero che scende fino al mare. Ed è questa la ragione per la quale nelle falesie inaccessibili sopravvivono ancora piante rare ed esclusive, come la silene vellutata di Panarea, o si celano i nidi dei falchi della regina, che tornano d’estate – anche loro, è proprio un vizio! – per riprodursi e dare vita a chiassose sarabande aeree. Tutto sembra cesellato dal tempo, immobile, eterno. Invece non è esattamente così. Nel novembre del 2002, in modo del tutto inatteso, il vulcano di Panarea ha voluto ribadire la propria esistenza. Lo ha fatto di notte, con sordi boati che hanno turbato il sonno dei pochi e ostinati residenti invernali. La mattina dopo, alla luce del sole, il mare attorno agli isolotti di Lisca Bianca e Bottaro sembrava una gigantesca vasca Jacuzzi con la pulsantiera di controllo impazzita: decine di colonne di gas risalivano prepotentemente dal fondo marino, dove la prateria di posidonia e tutte le altre forme di vita erano state inesorabilmente spazzate via; in superficie, migliaia di pesci soffocati dal diossido di zolfo galleggiavano con lo sguardo fisso e vacuo, mentre i gabbiani banchettavano felici. I vulcanologi stimarono l’entità di questi flussi nell’ordine di un miliardo di litri al giorno, ma soprattutto si resero conto che si trattava del degassamento magmatico di un sistema vulcanico attivo e, fino a quel momento, pressoché ignorato dalla scienza. Da allora, il suo costante monitoraggio ha permesso di comprenderne gradualmente le caratteristiche. Oggi, per esempio, sappiamo che presenta alcune affinità con il sistema profondo cui attinge anche lo Stromboli, e che episodi come quello di venti anni fa devono essersi ripetuti centinaia di volte nel corso degli ultimi millenni. Tra quegli isolotti che i viaggiatori del Grand Tour credevano essere i resti di un unico, grande cratere divelto da un cataclisma epocale, un po’ come accaduto a Santorini. Di tanto in tanto, dunque, il vulcano interrompe la sua apparente quiescenza per ritagliarsi un ruolo da protagonista nelle cronache altrimenti amene di Panarea. La sua ciclicità, tuttavia, sembra sfuggire a un parametro temporale così effimero come quello dell’esistenza umana. Del resto, a memoria di rosa – come scriveva Diderot – nessun giardiniere è mai morto.